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Viaggi in bici e non solo: due chiacchiere con Filippo Graglia

Filippo Graglia ha deciso di dismettere i panni da ingegnere aerospaziale in favore delle avventure in bici

Scritto il
da Martina Tremolada

Qualsiasi viaggio che includa lo sport è il mio”. Filippo Graglia, classe 1987, ha deciso di dismettere i panni da ingegnere aerospaziale in favore della sua iconica camicia a quadri da vestire in sella alla bici o con gli sci ai piedi.

Viaggiatore e sportivo incallito, dopo qualche vacanza itinerante, ha trovato nei cicloviaggi e nelle spedizioni alpinistiche il suo equilibrio. Chiacchierando, infatti, si palesa nei suoi occhi quell’irrefrenabile voglia di avventura e nella sua voce l’entusiasmo genuino di chi sa di aver trovato la sua normalità che riesce a tenerlo lontano dalle scrivanie degli uffici per stare sempre all’aria aperta.

Buona lettura.

Partiamo dal cicloviaggiatore che c’è in te. Quando hai cominciato a viaggiare in bici e perché?

“Il primo viaggio in bici l’ho fatto con un mio amico con la scusa di andare a trovare una nostra amica in Norvegia. Avevamo preso una MTB da poco e giravamo sulle colline vicino a Torino e, quasi per scherzo, ci siamo detti “andiamo a trovare Alice in bici”. Alla fine è stato così, siamo partiti con delle bici noleggiate – avevano addirittura il freno a pedale – e non avevamo l’attrezzatura adatta: avevamo imbustato gli zaini con le borse dell’immondizia. Abbiamo preso pioggia per 15 giorni, però alla fine ho detto “che figata viaggiare in bici!”. Da lì è nato tutto: l’anno dopo ho fatto Santiago, poi ho preso una pausa dalla bici per qualche anno e nel 2017 ho pedalato in Tagikistan e poi sono partito per l’Africa”.

Ecco, l’Africa: l’hai attraversata tutta da Nord a Sud e ci racconti il viaggio nel libro “All’orizzonte un Toubabu”. Come è nata l’idea di partire dal Piemonte e arrivare a Città del Capo?

“L’idea non è nata (ndr, ride). Avevo voglia di fare un viaggio in bici, fino ad allora avevo fatto solo vacanze. In testa mi balenava l’idea dell’Africa, ma mi sono detto “andiamo per step” quindi dopo i primi 2-3 mesi sono arrivato a Gibilterra. Da lì mi sono incuriosito verso il Marocco dove ho passato 3 mesi in un giro spaziale. Poi è arrivato il Sahara: “Wow che figata, attraversiamo il Sahara” ho pensato. E poi, sei in Africa, una volta che sei lì in Senegal è un attimo ad arrivare fino giù. Non avevo individuato Città del Capo come la fine, però ho sentito che il viaggio stava arrivando a compimento”.

Ci hai messo molto tempo.

“Si, ci ho messo una vita. Sono lento e parlo anche con le pietre. Mi hanno rallentato anche le tempistiche relative all’organizzazione: l’attesa per i visti mi ha portato via 3 mesi, malattie, infiammazioni e infezioni hanno fatto il resto. Poi ci sono sempre le pause classiche, quei giorni in cui non hai proprio voglia di pedalare e allora ti prendi del tempo per rilassarti. Su due anni di viaggio avrò pedalato il 60%”.

Visto che hai attraversato così tanti paesi, è stato difficile comunicare con le persone che hai incontrato lungo la strada?

“No, facilissimo. L’africano vive di dialogo e comunicazione, anche se non c’era una lingua in comune comunque tra gesti e sorrisi ce la siamo sempre cavata. Sono molto accoglienti e molto curiosi. Spesso sono loro che ti vengono incontro per parlare. Delle volte mi è capitato di dormire in posti dove non si parlava alcuna lingua in comune. Mi ricordo in Guinea Bissau in un villaggio in piena foresta dove nessuno parlava portoghese – nemmeno io – però ho passato la serata con loro prima cucinando con le signore e poi ballando tutti insieme. Il problema comunicazione in Africa non si pone”.

Se le altre prima erano vacanze, questo è stato il primo viaggione grande che ti ha cambiato la vita.

“Questo viaggio è diventato vita: dopo qualche mese l’ho percepito come la mia vita. Mi dicevo “domani devo andare a lavorare” e la routine prevedeva trovare qualcosa da mangiare, dell’acqua, un posto dove dormire e poi pedalo. Bella, bellissima vita. Non è stato più solo un viaggio e ho smesso anche di comportarmi da turista: non facevo più foto né video”.

Era diventata normalità.

“Si, esatto. Una bellissima normalità”.

Guardandoti indietro cosa diresti all’ingegnere aerospaziale che eri?

“Perché sono partito a 30 e non a 29?” (ride, tanto, ndr).

Hai pedalato anche in Pakistan: non un luogo facile. Qual è stata la difficoltà più grande tra le varie?

“Difficoltà con la D maiuscola non ce ne sono state. È stato tutto una piccola difficoltà: ogni giorno avevo delle cose in testa e c’erano zone in cui non potevo andare. Sono cose che ti possono rovinare l’esperienza se le prendi male. Io sinceramente sono andato là con zero pianificazione. Un giorno mi è successo che i militari mi hanno riportato alla capitale – come Monopoli: ritorna al via – perché mi trovato in un’area dove non potevo stare. Tanti permessi non li potevo ottenere, ho avuto anche un’infezione, la bici non era nelle migliori condizioni e non potevo sistemarla,… tante piccole difficoltà che però alla fine non hanno rovinato l’entusiasmo del viaggio”.

Insomma, giri a destra anziché a sinistra e va bene lo stesso.

“Si, infatti ho fatto così. Dovevo fare il giro in senso orario e mi hanno detto che non si poteva. Sono andato dall’altra parte e sono arrivato da sopra”.

Una domanda scomodissima: il ricordo più piacevole di questo viaggio?

“Ho fatto una spedizione alpinistica di 5 giorni senza bici. Sono andato nella valle del Nanga Parbat sotto la sua maestosa parete larga 20 km e alta 5 km. Quella sera c’era la luna piena da dietro, sono uscito dalla tenda e ho detto “mamma mia, che bellezza!”. Questo panettone che già di suo è imponente, illuminato dalla luna piena era davvero incredibile.
Da lì sono andato sulla montagna di fronte che è un 6000 m, dopo 9 ore arrivi in cima e puoi ammirare il Nanga Parbat.
Il momento più bello del viaggio quindi non è stato in bici, come anche quello dell’Africa. Il ricordo più piacevole del viaggio africano è su un treno in Mauritania attraversando il deserto”.

Come mai proprio su un treno in Mauritania?

“Non saprei indicare un motivo preciso, sensazioni positive. Viaggiavo su un treno nel deserto di notte in cassoni del trasporto per il ferro. Condizioni disagiate al massimo, c’erano altre persone con cui ho bevuto il tè, chiacchierato e giocate a carte sotto al cielo stellato del deserto del Sahara”.

Questo genere di viaggi, oltre che a livello di routine, quanto ti ha cambiato a livello umano?

“Mi ha portato fuori dai binari dell’ingegnere. Ero partito con i fogli Excel sulla distribuzione dei pesi sulla bicicletta, e questi viaggi mi hanno aiutato ad essere più flessibile e sconfiggere anche la timidezza. Magari mancava solo un po’ di sicurezza in me, però quando sei lì l’unica cosa che puoi fare è interagire”.

Un nuovo Filippo.

“Si, una nuova persona che ora non vuole tornare ai lavori d’ufficio, ma vuole stare all’aria aperta”.

Non ti vediamo solo in bici, spesso ti vediamo sulla neve tra le montagne del mondo.

“Quest’anno di neve non ce n’è stata molta, ma il 29 di agosto in Pakistan mi sono ritrovato a 4 mila metri sotto una nevicata. Sai cosa c’è di bello nelle montagne pakistane? Da noi, dalla pianura vedi questa barricata di montagne innevate, ma lì in Pakistan quando pedali in basso (1500 metri per loro è basso) sei in un ambiente desertico, molto secco tipo 35-40 gradi e ogni tanto qua e là ti vedi sbucare i giganti da 8 mila metri totalmente innevati. Quando ho visto il Nanga Parbat mi sono messo a piangere, mi sono commosso tanto. L’avevo in testa da tanto tempo”.

Con gli sci, o comunque con la scusa dell’alpinismo, che viaggi hai fatto?

“Qualsiasi viaggio che includa sport è il mio. Dal 2013 al 2017 ho preso una pausa dalla bici e ho fatto solo spedizioni di scialpinismo e viaggi di arrampicata. Di alpinistico ho fatto il viaggio Rock-and-Road negli Stati Uniti: un viaggio bellissimo di arrampicata ed esplorazione. Avevamo la macchina quindi ci spostavamo facilmente. Anche il Marocco è molto bello per l’arrampicata.
Con gli sci sono stato in Alaska dove un aeroplanino ci ha scaricati dicendoci: “arrangiatevi, ci vediamo tra una settimana se fa bel tempo”. Abbiamo fatto una settimana in quel parco giochi di ghiaccio sugli sci. Ne ho fatte anche altre, ma quella dell’Alaska è la più significativa”.

Ti spostavi trainando la slitta?

“No, ci spostavamo in giornata. Avevamo il campo base che abbiamo spostato una volta sola. La vita sul ghiacciaio a meno 30 è una meraviglia. Lui lo sa (ndr, indica Dino Lanzaretti, di cui puoi leggere l’intervista qui)”.

Cambieresti qualcosa della tua vita?

“No, ora sto cercando una direzione e del passato non cambierei nulla. Ho sempre avuto la fortuna di fare ciò che volevo: ho studiato ingegneria, ho fatto l’ingegnere, ho viaggiato. Mia mamma ormai fa spallucce e ha capito che non c’è modo di trattenermi”.

Se qualcuno volesse partire per un viaggio in bici, tu che consiglio daresti?

“Fallo subito! Molti non viaggiano perché sono intimoriti, abbiate fiducia nella gente. Chiaro, si deve studiare e prepararsi bene perché non si fanno viaggi a caso. Una volta che si è sul posto ci si deve fidare della gente. Il viaggio in Africa l’ho finito solo grazie alle persone che ho incontrato, altrimenti non mi sarei mai fatto due anni di viaggio”.

Possiamo seguire Filippo sui suoi social Facebook Filippo Graglia e Instagram, qui il link, e leggere i suoi viaggi in Africa e in Pakistan, rispettivamente, nei suoi libri “All’orizzonte un toubabou: 25.000 km di emozioni in bici” e “Pakistan Zindabad: Di canti, chai e biciclette”.


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