Spesso pensiamo al lavoro in rifugio come a un lavoro da sogno, un’esperienza incredibile, una di quelle cose che in molti vorremmo provare almeno una volta nella vita. Da fuori sembra tutto bello: sempre in montagna, in mezzo alla natura. Reduce io stessa da una stagione in rifugio, posso confermare che è effettivamente un’esperienza unica e molto appagante, che probabilmente rifarò in futuro, ma che non va sottovalutata.

Ne ho parlato e mi sono confrontata con Martina, giovane rifugista e artigiana valdostana conosciuta sui social come Martinà à la montagne (@martina_dondeynaz), e mi sono ritrovata completamente nelle sue parole. Con questo articolo vorrei cercare di trasmettere cosa significa davvero lavorare in un rifugio di montagna, quali sono i lati positivi e quali le maggiori difficoltà. Ecco cosa mi ha raccontato Martina.

Intervista
Ciao Martina. Prima di tutto presentati: chi sei e da dove vieni, da quanti anni lavori in rifugio e in che rifugio lavori?
“Ciao, mi chiamo Martina Dondeynaz, ho 26 anni e vivo a Brusson (in Valle d’Aosta) anche se, da 7 stagioni a questa parte, passo un po’ del mio tempo al rifugio Vittorio Emanuele, in Valsavarenche, ai piedi del Gran Paradiso.”

Come pensi che sia percepito il lavoro di rifugista da chi lo vede da fuori? Quanto si avvicina quest’immagine alla realtà?
“Credo che attorno a questo lavoro ci sia un’aura un po’ mistica… Da una parte c’è chi non contempla come si possa passare intere settimane arroccati in alta montagna, in un luogo in cui non prende il telefono, non si può uscire la sera e magari c’è pure da spalare mezzo metro di neve. Dall’altra invece c’è chi ingenuamente crede che stare in rifugio significhi passare tanto tempo in montagna a contatto con la natura, in una sorta di silenzio spirituale. In entrambi i casi si tratta di un’idea un po’ stereotipata: la realtà è che sì, siamo in montagna, e la montagna, almeno un po’, deve piacere per poter resistere quassù, ma la montagna la viviamo poco. Il lavoro è tanto e c’è sempre qualcosa da fare! Stessa cosa per l’idea di ‘ritiro spirituale’: accogliamo decine di persone ogni giorno e i momenti di silenzio sono un regalo non scontato. Siete mai capitati in terrazza in un sabato pomeriggio estivo?”.

Quali sono le cose che non si vedono?
“La vita in rifugio non è sempre facile. Oltre alla mole di lavoro vero e proprio ci sono tante piccole cose a cui spesso non si pensa. Prima tra tutti la convivenza: quassù viviamo tutti assieme. Lavoriamo assieme, mangiamo assieme, dormiamo assieme.. Non è come un normale lavoro in cui a fine giornata si torna ognuno a casa propria. Andare d’accordo è importante affinché tutto vada bene ma non è sempre facile ed immediato: serve rispetto, disponibilità, tanta educazione e un po’ di diplomazia!

Serve poi tanto spirito di adattamento: vivere a 2700m non è come vivere a casa, pur avendo tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Il telefono non prende, non abbiamo uno spazio tutto per noi, non ci si può fare la doccia in qualsiasi momento del giorno e se abbiamo bisogno di qualcosa in particolare tocca aspettare l’elicottero.
E come accennavo prima, il tempo libero è poco e i momenti di tranquillità vanno ritagliati con cura (e con un pizzico di maestria)!”.

Quali sono le mansioni principali di un rifugista? Qual è la tua routine?
“Risposta scontata ma non banale: il nostro compito è quello di accogliere alpinisti ed escursionisti che decidono di fare base in rifugio. Ogni rifugio ha la sua organizzazione del lavoro e delle varie mansioni. La giornata inizia con le colazioni che sono più o meno presto in base alla stagione, al meteo e alle condizioni. Una volta che i clienti sono partiti ci occupiamo delle pulizie, chi delle camere, chi della sala, chi del bar. Intanto il cuoco è già ai fornelli e spesso mi capita di fargli compagnia mentre preparo le torte.

Alle 11 mangiamo il pranzo, è presto certo ma tirare fino a fine servizio è dura! Dalle 12 alle 15 il ristorante è aperto per rifocillare gli alpinisti di ritorno dal Gran Paradiso o chi è salito apposta per una polenta o un’omelette. Nel primo pomeriggio finalmente abbiamo il nostro momento di pausa, mentre i nuovi clienti iniziano ad arrivare.

Ceniamo alle 18 dopo aver apparecchiato i tavoli per i nostri ospiti che ceneranno alle 19. Dopo cena, mentre i clienti si concedono l’ultima tisana o la ‘grappetta’ prima di andare a dormire, a noi tocca sparecchiare, lavare e pulire tutto, per poi riapparecchiare per le colazioni, in modo che sia tutto pronto per chi si alzerà presto l’indomani. Finalmente verso le 22/22.30 possiamo berci qualcosa tutti assieme e fare due chiacchiere prima di filare anche noi a letto.”

Qual è per te la cosa più bella del tuo lavoro? E la più difficile?
“Credo che la cosa che più mi piace di questo lavoro è l’idea di accogliere le persone. Un rifugio non è un albergo, mi piace pensare a questo posto come ad un porto di alta quota che accoglie chi va e chi viene in modo semplice e vero. Un riparo e un appoggio ma anche un luogo di scambio dove conoscere persone provenienti da ogni dove e ascoltare le loro storie.
Allo stesso tempo però non è sempre facile avere l’energia per farlo, a volte si è stanchi o semplicemente si hanno i propri pensieri per la testa e si vorrebbe solo starsene in santa pace in un angolo, ma invece tocca fare un bel respiro e correre a servire un’altra birra.”

Direi che Martina, con le sue parole, è riuscita perfettamente a trasmettere l’essenza e il significato del lavoro in rifugio. Un lavoro bellissimo, unico e appagante ma che richiede molto impegno e sacrificio. Il rifugio è casa per chi ci lavora e mi piace pensare che sia casa per chi ci passa, anche solo per un caffè. E proprio mentre tanti rifugi si trasformano in hotel d’alta quota in cambio di un’affluenza e un guadagno maggiori, è bene ricordare che il rifugio vero e proprio non è altro che questo: un riparo e un punto d’appoggio dove condividere il nostro tempo con chi, come noi, ama vivere la montagna.